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Se le frasi diventano armi, è necessario educare al “peso” della parola

Famiglia e scuola devono rinforzare il Patto educativo con al centro una riflessione sul linguaggio dei giovani

«Multo quam ferrum lingua atrocior ferit » (La lingua ferisce molto più della spada) recita un detto latino e nonostante il tempo passato l’attualità della frase è sempre più evidente soprattutto in un contesto iper-connesso come quello attuale. Basta osservare quello che sta succedendo in questi giorni e che abbiamo ripreso negli ultimi articoli pubblicati dalla nostra associazione sulle pagine di Avvenire. Il linguaggio, la parola, mai come in questi tempi di comunicazione sempre più virtuale è causa ed origine di tutta una serie di malintesi di cui spesso non consideriamo il peso e le conseguenze, con il risultato che cresce l’inquinamento, anche morale, dei nostri ragazzi, dei nostri figli. Di fronte al montare delle cattiverie e dell’ignoranza sparsa a piene mani dal “filosofo” di turno su blog, tweet e quant’altro, l’argine educativo di genitori e mondo della scuola sembra ormai sul punto di sgretolarsi Recentemente ci siamo imbattuti in una delle, purtroppo numerose, campagne d’odio online diretta contro un personaggio pubblico reo di una delle più grandi “nefandezze”: pensarla in maniera differente. Assistiamo ogni giorno a scontri verbali incredibili. L’agorà mediatica che ha occupato stabilmente spazi che prima erano “abitati” fisicamente, ci vomita addosso tutta una serie infinita di parole il peso, il significato, il senso delle quali sembra non siano pienamente noti nemmeno a chi le pronuncia, che non si rende conto come la parola abbia la capacità di diventare “arma che uccide”.

Dovremmo tutti crescere nella consapevolezza che il linguaggio che usiamo, a partire dalla nostra prima comunità che è la famiglia, va misurato e pensato. Da genitori il compito e ruolo che abbiamo non è assolutamente semplice in questo contesto mediatico super accelerato. Lo spazio, il tempo che intercorre tra il pensiero e la comunicazione è oggi estremamente breve con la conseguenza che si dicono e scrivono cose che generano conseguenze probabilmente non preventivate.

Dalla scuola e nella scuola dobbiamo ripartire per educare ed educarci al “peso” della Parola e del comunicare. Nel bene come nel male la parola è la forma più usata dagli umani nell’atto della comunicazione. Uno scambio che lascia tracce: chi di noi non ricorda qualche frase che gli ha inflitto un grande dolore o che gli ha rallegrato la giornata? Recentemente un comitato regionale Agesc ha organizzato un concorso per le scuole che aveva come tema proprio la “Parola”. I risultati, che andavano dal componimento in versi, alla clip video, dall’elaborato scritto al disegno, sono stati particolarmente positivi e significativi. Un segnale, uno dei tanti, che dice della bontà di percorsi che vedono insieme giovani studenti e adulti significativi (in questo caso sicuramente insegnanti motivati) per crescere nella consapevolezza di un uso “buono” delle parole. In questo percorso un ruolo importante lo abbiamo anche noi genitori a cominciare dal modo in cui comunichiamo con i nostri figli, dalle parole che usiamo che non sono tutte uguali e dicono chi siamo.

In una rubrica pubblicata sulle pagine del quotidiano Il Sole 24 ore monsignor Galantino si rivolge ai giovani studenti invitandoli ad “Abitare le Parole”; ad andare oltre l’uso scontato e talvolta superficiale delle parole per poter, grazie ad esse, costruire in modo più consapevole la nostra storia, e in particolare il nostro futuro.

Un invito che sposiamo ripensando a quel Patto Educativo che ci deve vedere tutti coinvolti, per certi versi tutti protagonisti perché le parole sono lo specchio di una società che cambia e attraverso le parole si può avere uno sguardo nuovo sulla realtà e sul futuro. C’è un nuovo mondo che emerge e un altro sta finendo e noi tutti siamo in questa transizione.

Non è il nostro un invito alla solitaria fuga in un silenzio inerte, ma l’invito, potremmo dire anche il desiderio, che la parola si accompagni al pensiero, che l’espressione nasca dalla ragione e dal sentimento, più che da una emotività incontrollata e selvaggia. Che il suono della parola sia sempre, come in musica, alternato alle pause, nelle quali il silenzio è musica stessa e vivifica il già detto ed espresso.

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Fonte:Avvenire