Cattolici sui social network questione di consapevolezza
Le grandi reti sociali come Twitter, Instagram e Facebook pongono ai credenti e alle realtà ecclesiali una seria questione sullo stile della loro presenza. Ma prima di tutto occorre una vera conoscenza del mezzoCome si comunica nel digitale? Meglio: come può e deve comunicare la Chiesa soprattutto sui social? La prima cosa che occorre tenere presente è che i social non sono tutti uguali.
Twitter, per esempio, è il social del «qui e ora», dove si «chiacchiera» e, a volte, si litiga a colpi di frasi con massimo 280 caratteri. È il luogo dove le notizie arrivano prima e dove si formano le polemiche. Nel nostro caso può servire per dare annunci molto importanti o per portare la voce della Chiesa all’interno di fatti accaduti da poco e che stanno facendo discutere. Se pensate invece di usarlo per far circolare notizie «normali» che rimandano al sito parrocchiale o diocesano, vi accorgerete che non è il social adatto.
Instagram è il social alla moda. In due anni anche in Italia ha raddoppiato i sui iscritti. A settembre 2018 erano 22,3 milioni (oltre 1 miliardo a livello mondiale). Piace soprattutto agli under 30. Perché è il social delle immagini (dove tutto sembra bello), dove l’interazione è inferiore (e quindi meno impegnativa) rispetto agli altri social. Piace perché diverte e distrae. Per portare la vostra voce di senso in un luogo simile dovrete impegnarvi su più fronti. Studiare lo stile delle foto e dei video (corti) che postate, studiare come convertire i vostri contenuti in «Storie», e – dopo avere fatto tutto questo – vi accorgerete che per creare attenzione attorno a temi profondi si fa una fatica enorme.
Passiamo a Facebook. Piaccia o meno, se volete raggiungere più persone possibili dovete andarci. Nonostante quello che si pensa (è in crisi, non piace ai giovani, eccetera) è ancora il social più popolare (e quello che genera più traffico). Secondo i dati AgCom, a settembre 2018 l’audience di Facebook in Italia avrebbe raggiunto 35,7 milioni di persone, con una crescita di ben 9,3 milioni di persone rispetto al settembre 2017. Facebook è il social più versatile. Quello che ospita post anche lunghi, dirette video, confronti (e polemiche). È il luogo dove potete creare gruppi di discussione privati (ristretti solo a un certo numero di partecipanti selezionati) ma è anche – e soprattutto – quello che vi espone di più. Sono sempre più frequenti i casi, infatti, nei quali post parrocchiali o di singoli sacerdoti che erano stati pensati per scuotere una comunità (e quindi rimanere circoscritti in ambiti precisi) sono rimbalzati al punto da diventare notizie nazionali da prima pagina. Questo è uno dei punti nodali anche della comunicazione ecclesiale: non esistono più barriere né «campi circoscritti», quello che anche un singolo sacerdote scrive sul proprio profilo Facebook può diventare un caso nazionale. Perché i social sono luoghi pubblici. E tutto quello che si pubblica è pubblico. Perfino quando decidiamo che certi post sono destinati a una schiera ristretta di amici basta che una sola persona che riteniamo «amica » faccia lo screenshot di un nostro post privato perché venga messo in circolo come pubblico. Nella comunicazione digitale il «privato» è un’utopia. Lo sanno bene coloro che hanno visto diventare pubblici persino certi messaggi WhatsApp. Non significa che non dobbiamo più pubblicare alcunché ma sapere sempre che ciò che pubblichiamo potrà (anche) essere usato contro di noi. Questo è un problema che riguarda soprattutto i singoli (sacerdoti, suore e religiosi) visto che per stile e «dna» istituzioni, ordini e diocesi sono da tempo abituati a comunicare in maniera meno «emotiva». Non è un problema da poco. Perché i nostri amici social amano le persone che raccontano di sé e che non hanno paura di esprimere le proprie opinioni – anzi, più certe persone gridano le proprie e più vengono «premiate». Ma come dice Sree Sreenivasa, che insegna giornalismo digitale alla Columbia University, «nessuno presterà attenzione a quel che lanciate online, fino al momento in cui commetterete un errore: allora tutti vi verranno addosso».
Qualunque possa essere il rischio di abitare i social, i vantaggi restano ancora tanti. Non esiste un mezzo così potente per raggiungere in fretta tante persone. Bisogna però tenere a mente alcune «regole». Prima di portare la comunicazione ecclesiale sui social occorre chiedersi (rispondendo nel modo più profondo e sincero possibile): perché vado sui social? Cosa voglio comunicare? Con quale stile? Ho tempo di ascoltare le critiche e le esigenze della mia «comunità digitale» o cerco solo un pubblico che mi gratifichi e metta «mi piace» a tutto ciò che faccio?
Forse vi sembrerò esagerato, ma senza un «piano editoriale» (che risponda alle domande accennate qualche riga sopra), tempo da dedicare (che deve essere «giusto» ma non eccessivo, perché la gente non cerca preti che «vivono sui social» ma che «comunicano sui social») e qualche professionista che vi aiuti, la vostra comunicazione vi sembrerà perfetta, ma solo finché non commetterete un errore.
Avvenire del 22 gennaio 2019