Una scuola per gli studenti richiede i docenti migliori

L’accordo tra ministero e sindacati manderà in cattedra molte persone non abbastanza vagliate
Una scuola per gli studenti richiede i docenti migliori

Si succedono nelle ultime settimane notizie circa l’accordo siglato tra Miur e sindacati sull’ennesima assunzione in ruolo di docenti, quasi 50.000, attraverso un «percorso facilitato». Altrettanti posti, appena poco prima, erano stati riservati alle maestre prive di titolo e già bocciate dal Consiglio di Stato, che il governo e i sindacati hanno voluto a ogni costo ripescare. C’è, in queste decisioni e nelle motivazioni che le sorreggono, un duplice errore: quello di mandare in cattedra persone non abbastanza vagliate (o solo autocandidate) e quello di mettere sullo stesso piano l’interesse, rispettabile, a un posto di lavoro e un altro interesse, quello di avere per i nostri figli gli insegnanti migliori. Quando due questioni sociali di questa rilevanza vengono in concorrenza, un ceto politico pensoso del domani non dovrebbe avere dubbi su quale privilegiare. Anche i nostri decisori non hanno avuto dubbi, ma purtroppo hanno scelto la soluzione del consenso facile e immediato, anziché quella dell’investimento sul futuro. Una volta, in casi come questo, era d’obbligo citare la cicala e la formica: oggi sembra che evocare il domani del Paese sia un atto di insensibilità nei confronti dei centomila precari che premono alle porte della scuola. Anche solo il mettere queste due esigenze sullo stesso piano sarebbe stato un errore. Dimenticarne totalmente una, e quella di maggior rilievo, appare politicamente miope oltre che eticamente imperdonabile. Non si tratta di un vizio specifico di questo governo: quelli precedenti avevano per lo più fatto cose simili. Come non ricordare lo svuotamento delle graduatorie dei precari, appena tre anni fa? Oltre settantamila immessi in ruolo in un colpo solo, senza nessuna prova? Almeno, in quel caso, si trattava di abilitati. Oggi, l’abilitazione viene conferita a prezzi di saldo, o addirittura gratis, per il semplice fatto di sottoscrivere una domanda. Per questa via, il miglioramento della scuola italiana (che ha il suo punto chiave nella qualità professionale dei docenti) può ancora attendere decenni, anche perché il precariato trae continuo alimento dalle supplenze e dai relativi punteggi.

Non si dovrebbe poi dimenticare che il decisore politico sta oggi sottoscrivendo una cambiale in bianco, a valere su un futuro incerto: quei centomila posti esistono solo in parte e ci vorranno dai tre ai cinque anni prima che si creino. Per non dire che la demografia ci ricorda, inascoltata, che nei prossimi dieci anni, ci sarà un milione di studenti in meno (circa il 10%). Quanto tempo ci vorrà prima che i vincoli comunitari di bilancio e un ministro del Tesoro meno silenzioso di quello attuale si incarichino di esigere un significativo ridimensionamento degli organici oggi così sovradimensionati (dal 10 al 20% in più) quando si raffrontino all’indice medio europeo relativo al «numero di docenti in rapporto al numero di studenti»?

Se si ha come riferimento prioritario l’interesse degli studenti, occorrono poche misure coraggiose che TreeLLLe ha indicato nella recente pubblicazione «Il coraggio di ripensare la scuola» (www.treellle.org): un blocco dell’attuale meccanismo, che dalle supplenze porta alla titolarità: niente punteggi, niente graduatorie, niente sanatorie. Solo, come in tutti gli altri settori che fanno ricorso al lavoro temporaneo, uno stipendio adeguato, ma limitato al tempo in cui si lavora; una revisione della formazione iniziale, con specifiche facoltà a numero programmato, dedicate a chi vuole intraprendere il mestiere di insegnante e non alla ricerca universitaria generale, come adesso. Oggi non è possibile chiudere i rubinetti di ingresso, proprio perché si tratta di facoltà generali, di cui l’insegnamento costituisce solo uno dei possibili sbocchi. Domani, se ci fossero percorsi specifici, si otterrebbero al tempo stesso due benefici: a) una preparazione migliore perché mirata al fine (l’insegnamento); b) la possibilità di limitare gli accessi, mediante prove selettive, ai migliori aspiranti. Il risultato sarebbe che avremmo docenti più preparati e che, una volta laureati, potrebbero accedere con certezza e senza inutili attese al lavoro per cui si sono preparati. Serve un gesto di coraggio politico per farlo: ci sarà qualcuno che avrà la visione e la forza per compierlo?

Il Corriere della Sera del 28 giugno 2019