«Scuola, manca una visione»
Bertagna, padre della riforma Moratti: si parli chiaro ai genitoriNuove risorse in arrivo dall’Europa per finanziare la didattica a distanza e garantire il diritto all’istruzione a tutti gli studenti, soprattutto quelli non ancora raggiunti dalla scuola online, che in Italia sono oltre mezzo milione. L’annuncio dei fondi in arrivo è stato fatto dalla ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che ieri ha partecipato alla riunione dei ministri dell’Istruzione Ue sull’emergenza Covid-19. I ministri Ue si sono confrontati anche sulla chiusura dell’anno scolastico in corso. Da oggi in Danimarca torneranno a scuola i bambini al di sotto degli 11 anni. Mentre in Norvegia i più piccoli torneranno nelle scuole d’infanzia dal 20 aprile. Per riaprire le scuole italiane, il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli dice che ci vorranno almeno tre miliardi per i contratti e l’edilizia. «Bisogna capire se a settembre potremo tornare a scuola oppure no – aggiunge –. Io voglio sperare di sì ma nell’ipotesi in cui si possa tornare, non sono a favore di un rientro graduale: a scuola o si torna o no, la scuola non è come una fabbrica».
«Sarebbe un errore considerare questa interruzione della scuola in presenza come una parentesi, pensando di poter riprendere tutto esattamente come prima, una volta cessata l’emergenza. Se pensassimo questo avremmo perso l’ennesima occasione di innovare la scuola italiana». Anche per l’istruzione «nulla sarà più come prima», assicura Giuseppe Bertagna, pedagogista dell’Università di Bergamo, già stretto collaboratore della ministra dell’Istruzione, Letizia Moratti nel 2001 e tra i “padri” di una riforma della scuola mai entrata a regime perché subito stoppata ancor prima di vedere la luce. «Cerchiamo di non perdere altri vent’anni», chiosa Bertagna, che ricorda i punti principali di quella riforma, a partire dall’utilizzo di internet e delle tecnologie per la didattica. «Se fosse stata messa in campo già da allora una coerente strategia, oggi non ci troveremmo in questa situazione di piena emergenza», sottolinea l’esperto di educazione. «Ciò che si è fatto dal governo in Renzi in poi negli ultimi 5 anni, è stato significativo ma insufficiente», aggiunge.
Non sappiamo ancora quando si potrà ripartire. Il governo ha indicato la data del 18 maggio come una sorta di spartiacque per decidere anche le modalità dell’Esame di Stato. Gli scienziati dicono che si potrà tornare in classe non prima di settembre. Intanto, la Francia riaprirà le scuole l’11 maggio. Come si esce da questa situazione di incertezza?
Non è tanto una questione di date, ma di visione. In Francia, ma anche in Germania e in Danimarca, la politica si è assunta un’esplicita responsabilità sociale. Da noi si amministra il giorno per giorno. Una cosa è certa: non riapriremo il 18 maggio. E forse nemmeno a settembre. Tornare in classe a dicembre o gennaio sarebbe già un successo. Ma anche questo ragionamento è figlio di una logica sbagliata.
Quale?
Quella che si fonda sul centralismo, per cui tutti devono fare le stesse cose, allo stesso modo e nello stesso tempo, dalle Alpi alla Sicilia. Il buon senso, invece, direbbe di provare a riaprire gradualmente, a macchia di leopardo. Dove è possibile, dove non ci sono stati e non ci sono contagi, e soprattutto dove si predispongono monitoraggi periodici, perché non si può tornare a scuola senza tutte le precauzioni? Perché negare questo diritto fondamentale a tanti bambini, penso soprattutto a quelli più piccoli, dell’infanzia o primaria, che stanno vivendo questi momenti di rottura delle relazioni con disagio? Con altri 150 accademici, ho firmato un appello al governo affinché consideri la progressiva adozione di misure alternative all’isolamento domiciliare generalizzato.
Dove possibile, la riapertura delle scuole deve andare di pari passo con la ripresa delle attività produttive?
Mi sorprende che nessuno abbia ancora detto ai genitori che, in questi giorni, dovranno riprendere il lavoro, che cosa faranno i loro figli. Magari per i prossimi cinque mesi. Ma vogliamo renderci conto che la didattica a distanza non sarà una parentesi ma che diventerà parte integrante della scuola italiana? O pensiamo davvero che, con la necessità di mantenere le misure attuali ancora per chissà quanto tempo, la classe possa essere ancora il modello organizzativo della nostra scuola? Se vogliamo convivere con le nuove regole, dobbiamo ragionare anche per gruppi piccoli, magari a rotazione. Invece, mi pare che si stia tentando di riprodurre a distanza la stessa logica della scuola in presenza.
Come sarà, allora, la scuola del dopo-coronavirus?
Sarà un mix di presenza e distanza. Con la didattica a distanza si deve favorire la cooperazione tra gli studenti, che useranno la rete ma, soprattutto, faranno rete tra di loro e con gli insegnanti. La scuola in presenza, invece, dovrà favorire percorsi personalizzati e un rapporto diretto tra allievo e maestro. L’idea che tutti debbano fare gli stessi percorsi, fondata su un astratto principio di uguaglianza, ha prodotto le gravissime disparità, sociali e territoriali, che tutti conosciamo. Una dose maggiore di flessibilità farà bene alla scuola.
Abbiamo gli strumenti, anche tecnologici, per attuare questo disegno? Già oggi almeno mezzo milione di alunni non è raggiunto da alcuna forma di didattica a distanza…
Di quali “forme” di didattica stiamo parlando? Spero non quella che si riduce a caricare compiti sul registro elettronico. Ciò che tutti devono capire è che il digitale non è una supplenza della scuola in presenza, ma è davvero una modalità originale e nuova di fare educazione. Un metodo che non si può improvvisare e che, soprattutto, deve vedere al centro l’iniziativa degli studenti. Sono gli insegnanti e i programmi che “servono” i ragazzi e non viceversa. Se si capiscono queste cose, allora si potrà tramutare questa emergenza in opportunità. Dando il via a quella rivoluzione di paradigma, che la scuola italiana sta attendendo da troppo tempo.
Avvenire, 15 aprile 2020 - Paolo Ferrario