Rispettare (anche) se stessi per contrastare i prepotenti nascosti online

Alla vigilia della Giornata mondiale della sicurezza in Rete, la riflessione dei genitori delle scuole cattoliche
Rispettare (anche) se stessi per contrastare i prepotenti nascosti online

Il prossimo 7 febbraio si celebrerà la Giornata mondiale della sicurezza in Rete, nata per promuovere un uso più sicuro e responsabile del web e delle nuove tecnologie, in particolare tra i bambini e i giovani. Da genitori, come Agesc, abbiamo da tempo aperto una riflessione su quest’ambito all’interno del mondo della scuola soprattutto alla luce del drammatico fenomeno del cyberbullismo.

Dalle Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo, emanate dal Ministero dell’Istruzione emerge che «il bullismo è un fenomeno prevalentemente sociale, legato a gruppi e a culture di riferimento per cui contrastarlo significa lavorare sui gruppi, sulle culture e sui contesti in cui i singoli casi hanno avuto origine; educando alla responsabilità e alla convivenza, nella cornice di un buon clima di scuola».

“Culture e contesti”, dunque, in altre parole: la scuola da sola non può sostenere l’impegno di fronteggiare un fenomeno delle cui proporzioni non si ha piena consapevolezza. Il messaggio, più volte citato su queste colonne, di papa Francesco, relativo alla natura collettiva, globale dell’educazione trova ancora una volta riscontro nelle proposte e nei suggerimenti dell’amministrazione scolastica per educare i nostri ragazzi a un uso non prevaricante, corretto, rispettoso di strumenti che amplificano la dimensione emotiva e soggettiva dei rapporti interpersonali.

Nelle società tradizionali dissoltesi a partire dagli anni ottanta, il fattore “forza” e “potenza fisica” era, possiamo dire, il presupposto dell’affermazione personale. Se i film, i fumetti, lo sport stesso vedevano nella “scazzottata” una delle forme abituali delle relazioni fra maschi, possiamo immaginare come il concetto di “bullismo” fosse assolutamente ignoto, persino inconcepibile in quelle realtà.

La progressiva scolarizzazione, il diffondersi di una cultura economica e relazionale e forme di lavoro sempre più calibrate sulla parola e sulla funzione, hanno ridimensionato il valore della “forza fisica”, ma non eliminato quel residuo di aggressività negli esseri umani. Ma il fatto rivoluzionario è stato il diffondersi della strumentazione digitale e l’affermarsi delle piazze digitali, i social network, sui quali, la spinta aggressiva, la provocazione e la violenza si sono convertiti dal piano fisico e gestuale a quello psicologico, verbale e grafico. La nascita di questo nuovo e inatteso fenomeno, che definiamo cyberbullismo, ha aperto spazi di complessa e difficilissima possibilità di controllo dei comportamenti adolescenziali e giovanili, sia da parte dei genitori, sia da parte della scuola. La violenza si è fatta più raffinata e ambigua. Spesso ragazzi e ragazze fragili e potenzialmente vittime di bullismo fisico, ma dotati di notevole intelligenza emotiva e di indubbie abilità tecnologiche, sanno rendersi protagonisti di azioni feroci e incisive, che possono colpire duramente i loro compagni, specialmente quelli che ai “social” affidano la loro fragilità o la loro narcisistica tendenza all’esibizione.

Che fare dunque?

Non sarà una linea repressiva a vincere questa sfida, ma una scelta di coerenza e di fermezza educativa tale da colpire il senso di responsabilità dei ragazzi. Come genitori rileviamo l’urgenza e la necessità che non solo la famiglia e la scuola agiscano sul piano della formazione, ma che l’intera società civile crei quei paradigmi immediati e automatici di riferimento per cui possa nascere un’etica nuova, che crei non solo nei ragazzi, ma anche nei giovani e negli adulti la consapevolezza che per rispettare gli altri bisogna assolutamente rispettare se stessi e agire da cyberbulli arreca danno agli altri e lascia indelebile sul web una traccia permanente, di un modo di essere: una firma che sottoscriverà per sempre la propria tendenza a degradare in forme relazionali scorrette e inadatte alla “società della conoscenza”.

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Fonte:Avvenire