Genitori della scuola paritaria: liberi di educare per educare alla “libertà”

Alla vigilia del Consiglio Nazionale di Roma, l’Associazione si interroga sull’“utilità” del sapere
Genitori della scuola paritaria: liberi di educare per educare alla “libertà”

Una delle domande che più di frequente i docenti e i dirigenti scolastici si sentono rivolgere da studenti e genitori è “A che cosa serve?”. Ora il quesito avrebbe senso se riguardasse uno strumento, un oggetto, un meccanismo non bene identificabile. Saremmo nell’ambito di una sensata richiesta sul piano pratico. Le cose invece si complicano terribilmente quando la questione riguarda sfere dell’astratto o, più genericamente, dell’immateriale, come: “A che cosa serve il latino? A che cosa serve la geografia? A che cosa serve la geometria?”. Domande che in passato sarebbero state considerate decisamente sciocche e che stupiscono non poco noi genitori di Agesc, impegnati da sempre sul piano della cultura come imprescindibile esperienza per la formazione critica della persona. Ma oggi la questione si fa seria, perché nell’era dell’Utile come “fine, mezzo e strumento” è difficile rispondere a domande che rivelano la distanza siderale di chi le pone dal mondo della cultura e dell’educazione. Eh, già, perché domandarsi a che cosa serve il “sapere” significa non esser in grado di cogliere il valore dell’esperienza intellettuale e cognitiva che quel sapere è in grado di offrire e ricondurre la conoscenza al mero e scheletrico parametro del suo valore d’uso. E questa è la vicenda che possiamo definire “caduta nel post-moderno”. Infatti, già nel 1979 Jean François Lyotard, nel celeberrimo saggio La condizione postmoderna affermava che il sapere sarebbe stato ridotto al livello di ogni altra merce e sarebbe stato valutato solo per il suo valore d’uso.

Come dunque proporre un’alternativa, che non sia di opposizione e resistenza, che non sia di timorosa conservazione, né di preoccupata difesa, ma di propulsivo e dinamico rovesciamento di questo modo di porsi di fronte al sapere? Ebbene, non ci sono, a nostro giudizio, alternative alla convinzione che il sapere sia prima di tutto una “educazione alla libertà”, e soprattutto alla libertà del pensiero, della parola e della coscienza, che del pensiero e della parola è la sede. Quella domanda iniziale deve avere perciò una risposta che ne destruttura il significato: non dobbiamo chiederci “a cosa serve”, ma “quale significato ha” e in tal senso il latino (e il greco), la geografia e la geometria, ma anche la storia e l’inglese, l’italiano e la chimica, sono cocktail di esperienze cognitive che danno sapore alla vita. Riusciamo a ricostruirlo, a rivivificarlo in quel particolare laboratorio che è la scuola? Noi crediamo di sì, lo stiamo sperimentando nella scuola pubblica paritaria che pone al centro dell’educazione la persona, non come il principe da servire o l’idolo da adorare, magari solo a parole, ma come l’interlocutore di un dialogo nel quale non solo il discente, ma il docente stesso cresce e matura, perché il sapere è vissuto come veicolo di esperienza critica e consapevolezza etica. Ma è evidente ormai che alcune discipline trovano il significato della loro presenza solo nelle coscienze che sanno guardare lontano, che temono l’asservimento delle menti al preconfezionato, al pre-disposto, al predefinito e vivono e pensano la scuola come occasione per allargare il compasso dell’orizzonte, quelle coscienze che l’Agesc raccoglie intorno a sé e incoraggia. Troverà questa testimonianza ascolto nelle stanze del potere? Saremo in grado di superare le chiusure di una cultura ottocentesca che vede nelle scuole pubbliche paritarie, non un serio e credibile versante della scuola pubblica della Repubblica, ma uno spazio di privilegiata gestione dell’educazione politicamente protettiva? Sarà in grado il Politico di comprendere che “senza oneri per lo stato” non significa tanto che “lo Stato non deve”, ma che lo Stato “può con legittima e motivata scelta” sostenere anche economicamente le frontiere della libertà educativa? O dovremo attendere il default del sistema, per comprendere che ormai siamo nel XXI secolo? Se non ora, quando la libertà della coscienza sarà considerata il cuore della libertà educativa e il motivo fondante di un sistema misto nel quale stato e privati, concorrano a dare energia culturale alla Repubblica? Non si tratta di una scelta politica o, peggio, ideologica, ma di una presa d’atto: la libertà non si costruisce con prediche e proclami, ma con il suo quotidiano esercizio nella sfida educativa, quella sfida che oggi ogni compagine statale deve affrontare, a pena di soccombere di fronte alle tecnologie nelle mani di chi dell’educazione non sa che farsene, anzi le teme e spesso la critica, la deride, la insulta.

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Fonte:Avvenire