Foibe, parlarne a scuola per non dimenticare questa tragedia nazionale

Oggi si celebra il Ricordo delle migliaia di italiani di Istria e Dalmazia uccisi alla fine della seconda guerra mondiale
Foibe, parlarne a scuola per non dimenticare questa tragedia nazionale

È una data certamente particolare quella di oggi 10 febbraio; una data che ci riporta ai tragici fatti accaduti in Istria e Dalmazia a cavallo della fine della seconda guerra mondiale. Il “Giorno del Ricordo” rappresenta una delle pagine della nostra storia ancora oggi, purtroppo, tra le meno conosciute nonostante da 19 anni si celebri questa giornata. E forse mai come oggi è importante ricordare, tenuto conto di quello che sta succedendo alle porte di casa nostra in Ucraina.

Pogrom, sterminio, eliminazione del diverso hanno toccato anche tanti italiani per il solo fatto di essere nati, vissuti, nella penisola istriana e nei territori della Dalmazia ed essere italiani. Diventato tristemente famoso con il nome delle “tombe” dove probabilmente ancora oggi in molti trovano sepoltura, quello delle “Foibe” è uno dei capitoli tragici della storia italiana che non va dimenticato. La scuola in questa opera di riconsiderazione e conoscenza ha un ruolo estremamente importante tenuto conto di quanto anche gli stessi giovani genitori conoscano molto poco.

Indubbiamente questa pagina della nostra storia civile è una di quelle con le quali facciamo fatica a fare i conti perché rappresenta ferite che ancora bruciano. È quindi indispensabile partire dai banchi di scuola, senza pregiudizi o resistenze ideologiche che finirebbero per far morire due volte chi ha sofferto ed è morto nelle foibe e dei testimoni che hanno subito sulla propria pelle, le conseguenze di una “pulizia etnica” messa in atto dal regime comunista di Tito. Il “Giorno del ricordo” è stato istituito dal Parlamento italiano nel 2004 (con riferimento alla data in cui nel 1947 fu firmato il trattato di pace che assegnava l’Istria alla Jugoslavia) proprio per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Negli anni - grazie anche a questa ricorrenza – si è sviluppata nella opinione pubblica la consapevolezza di una vicenda che parla ancora oggi e può insegnare molto alle giovani generazioni, sempre che noi adulti si riesca a non cadere in sterili polemiche o letture faziose di quei giorni che rischiano di spingerci indietro strumentalizzando tanti morti che invece “dobbiamo” e “vogliamo” ricordare, perché quella tragedia è frutto dei totalitarismi che hanno devastato nel secolo scorso l’Europa; di quell’odio seminato a piene mani che ha prodotto un immenso carico di dolore, sofferenze, ingiustizie che è sempre dietro l’angolo.

Nel 1992 con un libro diventato famoso, lo scrittore friulano Carlo Sgorlon parlò in un suo romanzo delle foibe e di una in particolare: la “Foiba Grande” situata nei pressi di Umizza (paese inventato dallo scrittore) di cui non era possibile misurarne il fondo. Quando Sgorlon pubblicò quel libro all’inizio degli anni Novanta, in pochi ancora parlavano della vicenda delle foibe e della sua dimensione politica. « Era in atto un genocidio – annotava a quel tempo lo scrittore – e chi non voleva entrare nel fiume dell’esodo, sgombrando il campo agli occupanti, veniva fatto sparire. Non v’era più scampo per gli istriani dissidenti». Difficile stabilire quanto Sgorlon possa aver contribuito ad una presa di coscienza collettiva di quel dramma: indubbiamente però il suo romanzo, a buon titolo, può essere considerato uno dei tasselli che hanno permesso di ridefinire la nostra memoria nazionale. Se i testimoni del “grande esodo”, degli uccisi nelle foibe, possono ancora parlare raccogliamo il loro monito e facciamolo conoscere ai nostri figli a partire dalla scuola perché il ricordo, anche doloroso, di lutti e tragedie è una condizione necessaria perché le sofferenze del passato non abbiano più a ripetersi.

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Fonte:Avvenire