«Offriamo ai giovani immagini e parole per pensarsi genitori»
«Generazione e maternità hanno bisogno di certezze e tempi lunghi. Invece qui ci sono biografie frammentate che non riescono più a pensare al domani»La bellezza della maternità raccontata attraverso l’arte, ma non solo, agli studenti di Medicina dell’Università di Pavia. Un percorso per sottolineare che, al di là dell’anatomia e della fisiologia, evidentemente fondamentali, dietro la maternità si intrecciano significati che toccano in profondità il senso stesso dell’esistenza. Sono duecento pezzi molto belli quelli messi in fila daMater, parole e immagini sulla maternità (fino al 30 marzo alla Residenza Universitaria Biomedica della Fondazione Collegio S. Caterina da Siena) che, come auspica la psicologa Silvia Vegetti Finzi, potrebbero servire a riannodare i troppi fili spezzati della nostra cultura in cui lo scorrere delle generazioni ha perso non solo centralità, ma anche memoria, consuetudini, radici.
«Non c’è niente di più lontano dai giovani della nostra società di una cultura condivisa della maternità», fa notare l’esperta che lo scorso anno ha scritto un saggio controcor- rente ( L’ospite più atteso, Einaudi, 2017) proprio per ribadire quanto sia importante tornare a riflettere sulla trasmissione della vita come normalità e non come eccezione che interrompe un percorso esistenziale tutto proteso al lavoro e al successo. «Nel mio saggio – ricorda Vegetti Finzi che ha anche inaugurato con un suo intervento la mostra in corso a Pavia – avevo invitato i giovani studenti, femmine e maschi, ad avere due progetti, uno per lo studio, l’altro per la vita. Oggi, tutti spasmodicamente protesi a costruirsi una buona carriera, non pensano a nient’altro». La mostra in corso a Pavia offre immagini di maternità provenienti da tutti i continenti, declinazioni diverse, colme di tenerezza e di stupore, per un solo grande obiettivo: ridare slancio al senso del diventare madri. Oggi questo valore fondamentale sconta un appannamento che ha tante cause sociali e culturali. «Mi sembra che alla base – riprende la psicologa – ci sia innanzi tutto l’individualismo competitivo a cui i nostri ragazzi sono sollecitati fin dalle scuole superiori. Sembra che l’unica cosa che conti veramente sia quella di prepararsi al meglio per raggiungere i pochi posti di lavoro disponibili, oppure per andare all’estero». E se i tempi della preparazione al lavoro, e poi del lavoro stesso, sono totalizzanti è evidente che non rimangano spazi né di energia né di progettazione per ciò che davvero conta nella vita. «Non c’è più rispetto né dei tempi fisiologici né dei tempi psicologici. E questo – sottolinea ancora Vegetti-Finzi – determina uno squilibrio in cui la maternità, anche quando c’è la volontà, viene rimandata a data da destinarsi. È fuori dall’agenda di vita e si può programmare quando tutto il resto è andato a posto». Tra le cause interiori bisogna ricordare anche un fatto a cui si pensa raramente. I giovani dei nostri giorni sono molto spesso figli unici, non hanno mai visto neonati, non c’è più quella frequentazione domestica di tutti i momenti della maternità che spesso bastano da soli a risvegliare un desiderio istintivo di generazione. «Se manca lo stimolo sensoriale e quello affettivo – fa notare l’esperta – viene meno un tassello importante dell’identità genitoriale». È sufficiente questo a spiegare il crollo della denatalità? Forse no, ma certo quando si punta il dito contro l’assenza di aiuti economici forse si dice solo una parte di verità.
«Generazione e maternità hanno bisogno di certezze e tempi lunghi. Invece qui ci sono biografie frammentate che non riescono più a pensare al domani». Come uscirne? «Lasciando fiorire le speranze dei giovani, non soffocandoli. E poi riprendiamo ad offrire loro immagini e parole per pensarsi genitori. Solo questo può aprire a dimensioni nuove».
Avvenire del 3 febbraio 2019