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Se la scuola è «viralizzata» riscopra i diritti pedagogici

Osservare l’allievo, motivarlo, valorizzare le sue potenzialità, aiutarlo nelle difficoltà, personalizzare l’offerta formativa: ecco cosa è importante riuscire a garantire

Molti si dimenticano che non basta accontentarsi di «cosa» l’allievo impara, è importante anche «come» lo impara: la sola trasmissione di nozioni lo depaupera di un vissuto educativo che va preservato È difficile immaginare una didattica attiva in aule densamente affollate: pochi alunni per classe, la scuola di domani

Nel corso dell’Ottocento, quando i Paesi occidentali si sono progressivamente dotati di sistemi scolastici pubblici (con modelli diversi di protagonismo statale o di decentramento), la Scuola ha assunto una sua religiosità civile, quasi come una Chiesa sui generis, con cadenze simili: banchi di scuola/banchi di chiesa; cattedra dell’insegnante/cattedra del vescovo; calendario scolastico/calendario liturgico; orario scolastico/liturgia delle ore; campanella/ campane. In contesti laicistici questa analogia fu giocata come alternativa ostile; nei contesti popolari di base, meno ideologizzati, come sussidiarietà reciproca di due grandi agenzie educative. E in effetti proprio la comune missione educativa (ancorché diversamente caratterizzata) dava sia alla Scuola sia alla Chiesa un presupposto comune di civiltà: l’umanesimo plenario, la dignitas humana, il servizio all’umanità e alla sua crescita. Insomma la centralità dell’essere umano in carne ed ossa: mente e corpo, natura e spirito. L a pandemia ha determinato uno stato di eccezionalità che ha comportato, per la Chiesa, una pastorale d’emergenza. E così pure, per la Scuola, si è resa necessaria una didattica d’emergenza. Una pastorale virtuale e una didattica virtuale. Con una non banale differenza: la Chiesa si è prevalentemente affidata alla televisione (i riti officiati dal Papa; la preghiera promossa dalla Cei e dai media di ispirazione cristiana; altri momenti di preghiera diocesani, ma diffusi da Tv2000 o da altre emittenti); la scuola si è finora prevalentemente affidata al web (che ha possibilità interattive). Così la Chiesa ha raggiunto (quasi) tutti i suoi fedeli che avessero voluto partecipare; la scuola ha raggiunto un 80% dei suoi studenti. Sembra tanto l’80%. In realtà significa che un quinto, il 20%, presumibilmente il più emarginato socialmente e geograficamente, cioè quella 'periferia digitale' che non ha computer o non ha connessione, è rimasto escluso. E così la Repubblica, come ormai capita negli ultimi decenni di neoliberismo imperante (perfino in campo educativo e scolastico), non ha eliminato, ma rafforzato, gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando l’eguaglianza, impediscono un pieno e paritario sviluppo della persona umana. Il 16 aprile la ministra Azzolina ha annunciato un’alleanza potenziata Rai-Ministero e un palinsesto ad hoc. Si possono concedere le attenuanti della sorpresa e dell’urgenza: ma è strano che – pur citando molto Alberto Manzi – si sia fatto ricorso così in ritardo alla televisione, che arriva in pressoché tutte le case. È il caso di dire, comunque, ... non è mai troppo tardi!

I n ogni caso, il 17 aprile, nella sua omelia nella Messa quotidiana a Santa Marta, papa Francesco ha ben chiarito che le modalità liturgiche a distanza, attraverso i mezzi di comunicazione sociale, sono un’emergenza legata «al momento difficile» e cioè una via «per uscire dal tunnel, non per rimanere così». E questo perché la Chiesa è «familiarità concreta». E, con uno dei suoi neologismi, Francesco ha concluso che non si può « viralizzare » la Chiesa. Una Chiesa tutta virtualizzata è una chiesa viralizzata: col- pita nel suo organismo. Ma – potremmo dire – lo stesso vale per la scuola: una scuola tutta virtualizzata è una scuola viralizzata: colpita nel suo organismo. Insomma, le modalità virtuali dell’emergenza hanno un carattere suppletivo e temporaneo, potranno anche rimanere poi in qualche forma particolare, subordinata e sussidiaria (come avviene nei corsi universitari): ma la scuola è comunità in presenza, è familiarità concreta, è didattica a km zero. I nsomma, se non vogliamo perdere il timbro umano e il fondamento umanistico di queste agenzie educative, non possiamo immaginare una permanente 'crisi

della presenza' (che è sinonimo di lutto). Diverso, ovviamente, è il livello universitario, nel quale il web può servire per forme di humanitarian higher education, naturalmente con precise garanzie di qualità (e fatte salve le necessità laboratoriali o le specificità della formazione di educatori). Peraltro la pandemia ha rappresentato, in negativo, la rivincita brutale della corporeità naturale sul cyber-mondo artificiale e, in positivo, ci ha fatto apprezzare l’importanza e il dono del contatto umano diretto, del vissuto sociale concreto, a fronte della innaturale chiusura prolungata in residenzialità coatte che psicologicamente ci pesano come arresti domiciliari. Insomma è l’evidenza globale della necessità e superiorità dell’umanesimo plenario nella vita normale.

P er rimanere in ambito scolastico, bisogna rifuggire dagli opposti estremismi dei luddisti didattici e dei pasdaran fanatici della tecnologia: né digital-fobia né digital-mania. Ma non si possono confondere i mezzi con i fini, né la forma con i contenuti. Certo, sappiamo ormai tutti che – come ci ha insegnato, in anni lontani, il grande Marshall McLuhan – il medium è il messaggio. Ma appunto: la forma, il 'come' è sostanza. Io posso utilizzare la lavagna di ardesia o la LIM, ma quale sarà la 'forma' della mia azione didattica? I dispositivi che uso sono importanti e non sono tutti uguali (perché offrono possibilità diverse), ben vengano perciò dispositivi migliori. Ma, alla fine, resta il loro carattere strumentale. E la capacità del docente si misura soprattutto sulla sua preparazione e sulla qualità della sua didattica.

V i è il diritto all’istruzione. Nessuno oggi lo nega. Ma vi sono – in una prospettiva umanistica universale – anche 'diritti pedagogici', che molti di fatto negano o perfino ignorano (analizzare il perché di questa ignoranza e dell’analfabetismo pedagogico, ancora tanto diffuso, ci porterebbe molto lontano). Non basta 'cosa' l’allievo impara, è importante 'come' lo impara. Se lo impara in una maniera mnemonica, astratta, passiva, come risultato di una fredda e apodittica trasmissione di nozioni, viene depauperato di un vissuto educativo importante che è un suo diritto: un diritto 'pedagogico'! E per rendere reale tale diritto, l’insegnante deve avere la possibilità di osservare direttamente l’allievo, di renderlo attivo nei processi di apprendimento, di motivarlo scoprendo e valorizzando le sue potenzialità o sostenendolo nelle sue difficoltà, di portarlo all’acquisizione di capacità cooperative e competenze sociali, di personalizzare l’offerta formativa, di suscitare e affinare il senso critico attraverso il dialogo. Se questi diritti pedagogici vengono riconosciuti, si usi pure tutta la strumentazione tecnologica utile a realizzarli. Certo la relazione umana, in presenza, non ne potrà mai uscire mortificata. I nfine, un ultimo punto importante. Si parla di riaprire le scuole cercando di garantire il 'distanziamento di sicurezza' tra gli alunni. Se si devono studiare accorgimenti (scaglionamenti, turnazioni, ecc.) è perché nei nostri edifici scolastici e nelle nostre aule viene spesso negato al singolo allievo il suo spazio didattico. È difficile, anzi impossibile, immaginare una didattica attiva in aule densamente o anche mediamente affollate. Questa è la frontiera qualitativa della scuola di domani: pochi alunni per classe. La necessità, in questo caso, potrà condurci a soluzioni migliori.

Avvenire del 22 aprile 2020 - Fulvio De Giorgi - Pedagogista, Università di Modena e Reggio Emilia