«Sul Web per diffondere il senso di comunità»

«Sui social network i cristiani non devono assecondare tendenze aggressive ma vivere la mediazione. Bisogna scendere da cavallo, come il Samaritano»
«Sul Web per diffondere il senso di comunità»

Relazione, inclusione, accoglienza: in una parola, comunità. È la parola che, leggendo il suo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, evidentemente più sta a cuore al Papa, che vuole cristiani impegnati a fare di Internet e dei social network un luogo dove cresce la «cultura dell’incontro» tra persone. Temi – tra gli altri – sui quali abitualmente lavora Pier Cesare Rivoltella, docente di didattica e tecnologie dell’istruzione all’Università Cattolica di Milano, dove ha fondato e dirige il Centro di ricerca sull’educazione ai media, all’innovazione e alla tecnologia (Cremit). Autore insieme ad altri studiosi di libri come Tecnologie di comu- nità, Tecnologie pastorali. I nuovi media e la fede e Il corpo e la macchina. Tecnologia, cultura, educazione, lavora con l’Ufficio Cei per le comunicazioni sociali a progetti di formazione per operatori pastorali.

Quale idea del messaggio del Papa, da studioso di educazione e media, trova più originale e pertinente?

La necessità di passare dal like all’amen. Il like dice dell’adesione superficiale e passeggera. L’amen di una fiducia stabile che permane. Il problema sta qui: si può vivere di like anche in presenza, come è possibile costruire stabilità online.

Che tendenze vede affermarsi nelle relazioni mediate dai mezzi di comunicazione?

Quando la relazione è mediata, forse è meglio parlare di interazione. Ecco, il rischio è che si interagisca molto, ma si entri poco in relazione.

Tra i più giovani la dimensione “social” nei rapporti con gli altri è ormai un dato di fatto...

Credo che tutti, non solo i giovani, abbiamo bisogno di recuperare il senso di una solidarietà che non sia leggera e mutevole. C’è bisogno di tornare a pensare e a insegnare la partecipazione. La Rete può aiutare a farlo, a patto che la si concepisca come premessa e conseguenza della solidarietà effettiva.

Tutti passiamo ormai parte del nostro tempo a “condividere”: pensieri, immagini, esperienze. Cosa arginare e cosa valorizzare di questa forma di condivisione?

L’estimità – la tendenza a “portare fuori” quello che sarebbe meglio “tenere dentro” – è un dato di

fatto della società informazionale. Di questa tendenza va arginato il rischio di generalizzare ed estremizzare la spinta all’esposizione: non tutto può essere esposto, c’è una misura nella “slatentizzazione”. Ma certo è positivo che i social predispongano ad aprirsi all’altro. L’importante è farlo senza coperture e con la piena disponibilità al dialogo.

Lo smartphone enfatizza egocentrismo e narcisismo. Non finisce per disgregare il senso di comunità?

Io direi che il narcisismo e l’egocentrismo trovano nello smartphone un canale ideale. Ma sono abbastanza convinto che il problema sia nell’io e non nel dispositivo.

Quali sono i punti essenziali di un’educazione al senso dell’appartenenza a un “noi”?

Credo serva recuperare il valore del “pensiero posizionale”. Trovare la propria centratura nell’altro, maturare il senso di una “giusta distanza”, soprattutto far capire che un like non basta. Occorre insegnare a scendere da cavallo, come insegna l’icona del Samaritano sulla strada per Gerico.

Come vivere da cristiani dentro le comunità virtuali instaurate dalle reti sociali?

Come sale e luce. Vuol dire non assecondare le derive aggressive, vivere la mediazione, non accettare i compromessi.

Che cosa può fare la parrocchia per custodire il senso cristiano della comunità dentro una cultura pervasa dall’ideologia dei social network?

Credo che la parrocchia possa trovare nei social un nuovo vero spazio di evangelizzazione. La parola d’ordine è non perdere i vicini e avvicinare i lontani. Oggi la comunità assume volti diversi e nuovi. Occorre non avere paura di fronte alla sfida dell’oggi e accettare di mettersi in discussione. Le tecnologie possono essere vissute e usate come tecnologie di comunità. Molti parroci lo stanno già sperimentando.

Avvenire del 2 giugno 2019